Expats, la nuova miniserie tutta al femminile dal 26 gennaio su Prime Video. Quello che c'è da sapere (+ il trailer)
Il centro di gravità attorno al quale ruota Expats, la nuova miniserie in 6 episodi della scrittrice e regista Lulu Wang, in arrivo su Prime Video dal 26 gennaio 2024, è una sconvolgente tragedia familiare. Attraverso molteplici linee temporali, un gruppo di donne residenti nel milieu multiculturale di Hong Kong avanza rapidamente verso questo momento in apparenza inevitabile, per poi affrontarne le conseguenze in una fase successiva. Tuttavia, laddove queste premesse avrebbero potuto portare all'ennesima iterazione del melò di genere “true crime” che tanto spesso la televisione ci ha servito nel corso dell'ultimo decennio, Wang ha deliberatamente scelto una strada diversa. Trascorrono due interi episodi, nel corso dei quali conosciamo queste donne in tutti i loro pregi e difetti – e la città in cui vivono, che ci viene mostrata attraverso lunghe, eleganti riprese –, prima che ci venga rivelato l'evento devastante su cui si impernia la narrazione.
I dubbi di Lulu Wang
Si tratta di un approccio a fuoco lento, che i fan di Wang – il cui maggiore successo, a oggi, la commedia drammatica The Farewell – Una bugia buona, del 2019 , affrontava analoghe storie di dislocazione e lutto – conoscono bene. Sorprende, quindi, scoprire che la regista era titubante, all'inizio, nei confronti del progetto: «Hong Kong significa così tanto per così tante persone», dice, sottolineando di aver dovuto capire, prima, quale fosse la sua prospettiva sulla storia, soprattutto alla luce delle sue esperienze personali, la nascita a Pechino e l'emigrazione negli Stati Uniti all'età di sei anni. «Sono un'espatriata? Sono un'immigrata? A quale comunità mi relaziono di più e come potrei raccontare la storia dell'intersezione di tutte queste diverse comunità? Credo che la mia esitazione nascesse da un senso di responsabilità: non sapevo se sarei stata in grado di raccontare tutto per tutti». Inoltre, avendo lavorato per lo più in film indipendenti, era intimorita dalla portata del progetto, una serie che si sviluppa nell'arco di sei ore e mezza, con un budget da Prime Video: «Ma, però, ho parlato con Nicole e lei mi ha detto: “Fa' quello che sai fare. Io ho lavorato in piccoli film e in grandi film. Sii te stessa, questo è tutto ciò che conta”».
La Nicole in questione è Nicole Kidman, protagonista e produttrice esecutiva dello show. Tutto è iniziato quando la sorella dell'attrice, che all'epoca viveva a Singapore, le ha prestato una copia del romanzo di Janice Y. K. Lee The Expatriates, uscito nel 2016. Dopo aver letto il libro, Kidman ne ha subito acquistato i diritti tramite la sua casa di produzione Blossom Films. Per pura coincidenza, aveva appena visto il già citato film di Wang The Farewell: «Ricordo di aver pensato: “Ok, eccolo qui. A quanto sembra, abbiamo trovato il nostro talento visionario. Ora si tratta solo di convincerlo"», racconta Kidman. E Wang aggiunge: «Beh, Nicole ha capito subito che la strada per il mio cuore passa attraverso il cibo, quindi mi ha chiesto: "Ceniamo insieme?". E io: “Era un no, ma adesso è un sì”».
Tre donne e una tragedia
Sia Wang sia Kidman hanno capito subito che la forza trainante della serie doveva essere costituita dalle tre donne che ne sono al centro, non dagli aspetti più sensazionali della trama. C'è Margaret, interpretata dalla stessa Kidman, la cui perfetta vita familiare va in frantumi mentre si trova a dover affrontare una perdita inconcepibile; la sua vicina Hilary, interpretata dall'attrice indiano-americana Sarayu Blue, che cerca di riprendere il controllo del proprio matrimonio, tra infedeltà coniugali e desiderio di maternità; e la coreano-americana Mercy, interpretata dall'esordiente Ji-young Yoo, personaggio il cui atteggiamento da spirito libero nasconde un turbolento mondo interiore che la porta a essere direttamente coinvolta nella tragedia al centro della storia.
Un episodio speciale
Ma Wang si è spinta oltre. Ha fatto sapere a Prime Video di voler girare un quinto episodio della durata di 96 minuti – in pratica, quella di un lungometraggio –, concentrato quasi interamente sulla comunità di collaboratrici domestiche filippine che, nei loro giorni di riposo, si riuniscono nei parchi e negli spazi pubblici della città per spettegolare e mettersi in contatto via FaceTime con le rispettive famiglie nel loro Paese di origine. L'idea di relegare sullo sfondo i personaggi principali (incluso quello di Kidman, la star dello show) per un significativo segmento della produzione era tale da suscitare una giustificabile perplessità, ma Wang, con il pieno sostegno di Kidman, non ha esitato a presentare l'idea al team di Prime Video come qualcosa di non negoziabile. Dopo un po' di esitazione, hanno accettato. «Era incredibilmente importante, per me, perché sentivo che era il mio modo di entrare nella storia», dice Wang. «Avevo scritto The Farewell pensando a mia nonna, e molte di quelle donne sono proprio come lei, come la mia famiglia, persone che passano la loro intera vita a servirne altre. Mi sembrava di conoscerle intimamente e sentivo di voler dare loro dignità. Volevo raccontare la loro storia attraverso i loro stessi occhi e capire davvero chi sono come persone, non solo come espatriate».
«Era l'unico modo», dice Kidman. «Questa produzione aveva bisogno del cuore e dell'anima di Lulu. Senza, sarebbe stato vuota».
Una sceneggiatura tutta al femminile
Il passo successivo è stato quello di mettere insieme la “writers' room”, che ha finito per diventare un team di sole sceneggiatrici, tra cui l'autrice stessa del romanzo, Janice Y. K. Lee, che Wang descrive come una risorsa inestimabile per far luce sulle storie immaginarie del gruppo di personaggi secondari che aveva intenzione di portare alla ribalta. «Continuavo a scherzare e a dire a Alice [Bell, co-sceneggiatrice e co-produttrice esecutiva]: “Pensi che, in nome della diversity, dovremmo avere anche un uomo nella writers' room?"», racconta Wang. «Ma poi ci guardavamo e dicevamo: “No, non ci serve. Ce la caviamo benissimo così”». E aggiunge: «In ogni caso, anche se la writers' room era composta solo da donne, per noi era importante assicurarci di estendere l'empatia a tutti i personaggi. Non volevamo criminalizzare nessuno, e anche i personaggi maschili dovevano essere amorevoli, compassionevoli, ben definiti».
La scelta del cast
Quando si è trattato di trovare gli attori in grado di interpretare questi personaggi complessi e mutevoli, Wang e Kidman hanno lavorato con agenti di casting sia a Los Angeles sia a Hong Kong e hanno deciso di seguire il proprio istinto. «Continuano a chiedermi che cosa mi abbia attirato di questo progetto, ma la domanda giusta sarebbe: cosa avrebbe potuto non attirarmi?», dice Yoo a proposito del ruolo di Mercy, un personaggio che è stato concepito, in parte, ispirandosi alle sensazioni provate da Wang nel visitare la Cina durante l'università, quando avvertiva quella strana tensione tra l'appartenere a un luogo e, allo stesso tempo, sentirsene in qualche modo lontana. Per Blue, invece, lo show ha rappresentato un'opportunità, come lei stessa ammette, non senza una certa commozione: «Per me, è stato un dono enorme avere l'opportunità di interpretare un personaggio sudasiatico dalla personalità così sfaccettata», dice. «È eccitante pensare: "Ok, non è importante se il personaggio piace o non piace: quello che conta è la storia". Sì, perché si tratta della storia. È stato qualcosa di incredibilmente liberatorio».
La protagonista n°4: la città di Hong Kong
Il quarto personaggio principale della miniserie è la città stessa. Attraverso l'obiettivo della direttrice della fotografia, Anna Franquesa-Solano, osserviamo l'intera topografia urbana di Hong Kong in tutta la sua unicità e insolita bellezza, dalla lussureggiante vegetazione tropicale del quartiere benestante del Peak allo smog e alle luci al neon dei mercati notturni, alle sale patinate degli hotel di lusso, dove si riuniscono uomini d'affari ed espatriati, fino allo squallido appartamento senza ascensore dove Mercy si intrattiene con i suoi vari amici e amanti nel corso della serie. «Hong Kong sta scomparendo, sotto molti punti di vista, e lo sta facendo da un po' di tempo a questa parte», dice Wang, ricordando un episodio, in particolare: quando, un anno dopo la fine delle riprese, è tornata in una trattoria tipica in cui aveva girato alcune scene, si è trovata davanti a un locale chiuso. «Abbiamo avvertito un forte senso di responsabilità nel catturare tutto com'era in quel momento», dice, «nel mostrare quanto questo sia importante per la gente».
Le riprese in città hanno comportato non poche sfide – soprattutto durante i rigidi periodi di lockdown imposti dal governo a causa della pandemia –, ma l'atmosfera di Hong Kong, la sua viscerale drammaticità, la densità della sua popolazione, con le sue comunità sovrapposte, ha influenzato non solo il tono della serie, ma anche il modo in cui gli attori hanno interpretato i rispettivi personaggi. «Vengo dal Colorado, quindi, quando sono arrivata a Hong Kong e sono uscita per la prima volta dalla mia stanza d'albergo, mi sono detta: “Oh, mio Dio, cosa sta succedendo?”», racconta Yoo. «Mi ha fatto pensare a quei film che sfruttano al meglio il clima, come Parasite o Fa' la cosa giusta, pellicole che usano il caldo e la pioggia come forze che fanno venire tutte le emozioni allo scoperto. E questo mi è stato utile per il personaggio di Mercy, che si tiene dentro così tante cose e che si rifiuta di farle uscire, dimostrandosi incapace di esprimere ciò che prova».